Daniel Pennac. Lui, che fu un somaro, esemplare del “non ci riesco”, vittima del “non diventerò mai niente” e ripetitore del ritornello “non fa per me”, ci trasporta nel regno dell’istruzione e nella faticosa conquista del sapere, raccontandoci la sua avventura scolastica dalla discarica di Gibuti dei somari fino alla luccicante ascesa al mondo dei professori e dei romanzieri.
Pennac (proprio lui, l’autore) era un pessimo studente: svogliato, pigro, bugiardo, distratto, per poco non un delinquente (ha organizzato furti scolastici e poco simpatici scherzi ai danni dei docenti). Espulso da più scuole, è stato inviato alla scuola militare, sua salvezza. Lì ha incontrato quei professori che l’hanno salvato. Quelli che hanno saputo trasmettergli il desiderio di accaparrarsi del mondo tramite la conoscenza, cancellando tutti i “ci” dell’incarnazione negativa (non ce la faccio, non ci riesco, non ci sto bene, ecc.) e l’hanno aiutato a combattere tutto “questo” (la mancanza di basi, la difficoltà di concentrazione, la mancanza di impegno, i programmi scolastici sempre più complessi e gli insegnanti stremati e delusi). La sua personale storia di somaro gli è servita a diventare quello che è oggi (e il somaro che era glielo ricorda molto spesso!). Pennac è diventato un professore, di quelli che si fanno beffe delle etichette e dei pregiudizi e annienta tutte le distanze tra il mondo della scuola e dei suoi esclusi. Perché “il mal di grammatica si cura con la grammatica, gli errori di ortografia con l’esercizio dell’ortografia, la paura di leggere con la lettura, quella di non capire con l’immersione nel testo, e l’abitudine a no riflettere con il pacato sostegno di una ragione strettamente limitata all’oggetto che ci riguarda, qui e ora, in questa classe, durante quest’ora di lezione, fintanto che ci siamo”. Pennac è il professore che non ha paura di guardare i suoi allievi e i loro problemi, che non si disgusta delle loro malefatte, che prende in giro le loro gaffes – ad esempio, incollando ai muri della classe le frasi più originali e sgrammaticate, appese come spoglie dei morenti quando i loro autori hanno vinto quell’errore – , quello che inventa modi per far sì che i suoi studenti si approprino della materia – attraverso il dover imparare a memoria testi della letteratura francese che venivano poi richiesti a sorpresa durante l’anno, con tanto di voto -, e usa metodi più che noti per renderli vicini agli studenti di nuove generazioni - con improvvisi dettati creati all’impronta dagli stessi studenti -, nel costante tentativo di accorciare le distanze e eliminare le diffidenze e le paure, anche facendo correggere i compiti dei più bravi dai più scarsi.
Nel leggere questo libro, ho pensato alla mia carriera scolastica, ai miei “dieci e lode” ed ai miei “quattro”, e ho rivisto i volti di chi mi ha spronato e stimolato, rendendomi una persona consapevole e colta. Inutile dirvi che erano volti di alcuni dei miei professori. E nei loro occhi e nelle loro parole riecheggia la stessa cosa che fluisce in modo ironico e irresistibile nel testo di Pennac: amore. Questa parolaccia brutta che lo stesso somaro di Pennac caccia fuori, e presenta come vero unico antidoto all’ignoranza, unica vera forza capace di strapparci tutti dai rifugi comodi del ci e dai capri espiatori del questo.
Grazie infinito a chi mi ha consigliato questo libro.
Grazie Daniel Pennac per il tuo amore per le rondinelle cadute.
Questo prof., se lo vuole leggere...lo posso prestare! :)
RispondiEliminaGià letto! Ma la tua recensione mi ha fatto venire voglia di rileggerlo... vorrei una giornata di almeno 30 ore!!!!
RispondiEliminaBeh...una giornata di almeno 30 ore sarebbe utile a tutti!!
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